Esemplare la punizione inflitta dalla Cassazione (sentenza 31535/12), ai datori di lavoro ‘furbetti’.
I Giudici della suprema corte, questa volta, hanno stabilito che la condotta del datore di lavoro che approfittando della crisi del mercato, costringa i lavoratori, sotto minaccia di licenziamento, ad accettare trattamenti retributivi bassi e non adeguati alle prestazioni effettuate, può configurare il reato di estorsione ex art. 629 del codice penale.
I poveri lavoratori si erano rivolti al Tribunale di Nicosia perchè costretti, secondo l’accusa, a “restituire” al datore di lavoro, sotto minaccia di licenziamento, una parte delle somme ricevute a titolo di retribuzione e o comunque ad accettare somme inferiori a quelle figuranti sulle buste paga.
La “sanzione” della mancata assunzione o del licenziamento delle varie persone offese in caso di dissenso dalle condizioni coercitive loro imposte, rappresenta proprio quel ‘male antigiuridico’ tipico della estorsione.
Per questo il Tribunale condannava il datore alla pena complessiva di anni sette di reclusione ed euro 3.500 di multa, poi confermata in appello ed oggi anche in Cassazione.
Nella motivazione si legge che: “integra il delitto di estorsione la condotta del datore di lavoro che, in presenza di una legittima aspettativa di assunzione, costringa l’aspirante lavoratore ad accettare condizioni di lavoro contrarie alla legge e ai contratti collettivi”.
Guai seri, quindi, non solo di natura civilistica, al datore di lavoro che adotta tali ingiusti ‘accorgimenti’.
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